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La Corte di Cassazione con l’ordinanza dell’11.11.2024 n. 28927 ha ribadito che l’assenza della preventiva contestazione dell’addebito determina l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, di cui all’art. 18, co. 4, S.L.

L’art. 445 bis c.p.c. prevede, per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile etc., l’obbligatorietà dell’accertamento tecnico preventivo ai fini della verifica delle condizioni sanitarie. A tal proposito la Corte di Cassazione con la sentenza 5 dicembre 2024, n. 31168 ha ribadito che nel caso in cui una delle parti voglia contestare le conclusioni del CTU è tenuta a formulare la dichiarazione di dissenso e a depositare il relativo ricorso. Gli ermellini hanno precisato che tale giudizio ha per oggetto solo l’accertamento del requisito sanitario e non altri requisiti. Tuttavia l’INPS può introdurre il Giudizio di merito per la verifica dell’insussistenza degli altri requisiti della prestazione finale ma esclusivamente nell’ottica di dimostrare il difetto di interesse ad agire e l’inutilità dell’accertamento domandato. L’unica verifica consentita al Giudice, in altre parole, riguarda la manifesta carenza dei presupposti processuali e/o delle altre condizioni dell’azione e/o degli ulteriori requisiti costitutivi della prestazione previdenziale e/o assistenziale cui l’accertamento stesso è finalizzato.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza 170/2025 ha ribadito che nel caso di licenziamento del soggetto disabile costituisce discriminazione indiretta, secondo il diritto dell’Unione Europea, l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile in quanto non tiene in considerazione la maggior morbosità in conseguenza della disabilità. In particolare, la conoscenza o conoscibilità dello stato di disabilità del lavoratore da parte del datore di lavoro impone a quest’ultimo di verificare se le assenze per malattia siano o meno connesse allo stato di disabilità. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento del lavorato disabile in quanto la società pur se a conoscenza dello stato di disabilità dello stesso non ha acquisito informazioni in merito alla correlazione tra assenze per malattia e stato di disabilità.

Il Tribunale di Foggia con sentenza n. 1240 del 25 marzo 2022 ha ribadito il principio ormai consolidato che è in capo al lavoratore la prova della sussistenza di un licenziamento verbale; ossia che la risoluzione del rapporto di lavoro sia ascrivibile alla volontà datoriale, seppur manifestata con comportamenti concludenti. Non è pertanto sufficiente la prova della mera cessione dell’esecuzione della prestazione lavorativa.
In mancanza di tale prova, alla luce della prolungata assenza dal posto di lavoro, il rapporto può intendersi cessato per dimissioni volontarie rassegnate per facta conclidentia, anche nel sistema normativo attuale che prevede l’obbligo di trasmissione telematica delle dimissioni.

Il Tribunale di Venezia con sentenza n. 647 del 29 ottobre 2021 ha statuito che è escluso dal cc.dd. “blocco dei licenziamenti” imposto dalla normativa emergenziale il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Non è infatti possibile in assenza di uno specifico richiamo all’art. 2110 cc interpretare estensivamente il DL 46/2020 fino a ricomprendere in esso anche tale fattispecie.
Il “blocco dei licenziamenti” è stato normativamente previsto durante il periodo emergenziale per contenere gli effetti negativi che la pandemia stava producendo sul sistema socio-economico, mantenendo così i livelli occupazionali. Tale esigenza non si rinviene però nell'ipotesi di recesso per superamento del periodo di comporto, circostanza che potrebbe verificarsi anche prescindendo dall'epidemia di Covid-19.

La Corte di Cassazione con ordinanza n. 9158 del 21 marzo 2022 ha ribadito che il licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica senza adibire il lavoratore a mansioni compatibili con il suo stato di salute integra l’ipotesi di difetto di giustificazione suscettibile di reintegra ai sensi dell’art. 18 dello statuto deli lavoratori, così come modificato dalla l. 92/2012.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31071 del 02.11.2021 ha affermato che le organizzazioni religiose e di tendenza non possono invocare la loro libertà di organizzazione nel caso di decisioni palesemente discriminatorie.
In particolare i giudici precisano che il diritto antidiscriminatorio non può declinarsi tenendo conto delle libertà di organizzazione riconosciute alle organizzazioni religiose e di tendenza, in quanto l’esercizio di alcun diritto può comportare e giustificare la lesione dei diritti inviolabili e fondamentali della persona, tra i quali la dignità umana.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha confermato il carattere discriminatorio dell’istituto scolastico religioso che non aveva rinnovato il contratto di lavoro ad un professore per il proprio orientamento scolastico.

Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 2798/2021 ha ribadito la nullità del licenziamento ritorsivo a condizione che il motivo ritorsivo sia stato l’unico motivo determinante il recesso del datore di lavoro. È onere del lavoratore, dunque, provare rigorosamente l’intento ritorsivo del datore di lavoro. In tali casi il lavoratore è tenuto non solo a provare l’esistenza di un motivo ritorsivo, che sia stato l’unico a determinare il recesso datoriale dal contratto in essere.

La corte di Cassazione con la sentenza n. 2378/2022 ha affermato che la condotta del datore di lavoro che offende pubblicamente il proprio dipendente (ossia alla presenza dei colleghi e/o clienti) ledendo così la sua dignità e reputazione integra la fattispecie del reato di maltrattamenti.

Il Tribunale di Palmi con l’ordinanza del 13.01.2022 nonché il Tribunale di Asti con ordinanza del 05.01.2020 hanno affermato che il periodo di quarantena o di isolamento fiduciario non è computabile ai fini del comporto, in quanto i lavoratori in tali casi sono impossibilitati per legge a rendere la propria prestazione lavorativa a prescindere dalla comparsa o meno dei sintomi legali alla malattia da Covid-19.
Pertanto, il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto è illegittimo.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 2869 del 31.01.2022 ha ribadito che l’immediatezza del licenziamento rispetto alla condotta tenuta dal lavoratore e censurata è un elemento costitutivo del diritto al recesso. Infatti, la tardività della contestazione induce il lavoratore a presumere che il datore di lavoro non ritenga grave la condotta tenuta. È onere del datore di lavoro dare prova dei motivi per i quali non ha contestato tempestivamente il fatto addebitato.
Nel caso di specie, la Corte ha confermato l’illegittimità dei licenziamenti irrogati nell’anno 2016 per condotte tenute nell’anno 2013.

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 31.01.2022 ha ribadito che la contestazione disciplinare deve essere valutata in modo autonomo rispetto ad eventuali imputazioni penalistiche. Pertanto, il giudicato relativo al procedimento penale ha effetto preclusivo nel procedimento civile promosso dal lavorato per impugnazione del licenziamento solo nel caso in cui la sentenza penale accerti l’insussistenza del fatto oppure la non partecipazione del lavoratore al fatto addebitato.

La Corte di Cassazione ha ribadito nella sentenza n. 25731/2022 che la chat aziendale è da qualificarsi ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori quale strumento di lavoro, essendo funzionale alla prestazione lavorativa
Ne consegue che le informazioni ivi presenti sono inutilizzabili dal datore di lavoro ai fini disciplinare, ex art. 4 comma 3 Statuto Lavoratori in mancanza di preventiva e adeguata informazione.

Il Tribunale di Roma con la sentenza n. 8974 del 03.06.2021 ha precisato che il dies a quo da assumere come riferimento per la decorrenza del termine di decadenza previsto dall’art. 32, comma 4, lett. D) L 183/2020 deve essere individuato nel momento di cessazione del rapporto di lavoro, in altre parole, nel momento in cui cessa in maniera definitiva lo svolgimento della prestazione resa a favore dello stesso. Il Tribunale di Roma evidenzia inoltre che è onere del datore di lavoro fornire la prova della genuina intermediazione.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 15949 del 2021 ha precisato che l’inadempimento degli obblighi formativi comporta la trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dall’inizio del rapporto.
Tale inadempimento, però, deve concretizzarsi nella totale mancanza di formazione, sia teorica che pratica ovvero in una carente e/o inadeguata attività formativa rispetto agli obiettivi previsti nel progetto di formazione. Pertanto, nel caso in cui l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza e l'inosservanza degli obblighi di formazione sia tale da non poter essere sanata in modo da consentire la formazione del giovane nel tempo stabilito, si giustifica la declaratoria di trasformazione del rapporto.

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 32982/2019 ha affermato che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro nonché dell’immagine e professionalità del dipendente.
La Corte con tale provvedimento introduce la possibilità di provare tale danno derivato dal demensionamento anche a mezzo presunzioni. Infatti, anche dopo la nuova normativa delle mansioni introdotta dal Jobs Act e con la Riforma del Collegato Lavoro, il datore di lavoro non detiene il potere di demansionare o dequalificare un lavoratore ad libitum.

La Corte di Cassazione nel provvedimento n 12499/2000 ha ribadito la natura imperativa della norma di cui all’art. 3, D.Lgs. n. 368/2001 che sancisce il divieto di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori. La ratio di tale norma è diretta alla protezione dei lavoratori rispetto ai quali la flessibilità d’impiego che riduce la familiarità con l’ambiente e gli strumenti di lavoro.
Ne consegue che nel caso in cui il datore di lavoro non provi di aver adempiuto a tale obbligo, la clausola di apposizione del termine è nulla. Tale norma, pertanto, pone un ulteriore requisito per la validità dei contratti a tempo determinato.
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